Proviamo a immaginare uno spazio e un tempo in cui le paure e il declino non abbiano ancora offuscato l’orizzonte. Un’epoca in cui il progresso sia una promessa tangibile, nutrita di ottimismo, e il futuro appaia ancora luminoso, non soffocato dal disincanto.
Se il Sole muore è il diario di un anno vissuto in questo spazio e in questo tempo. Negli States del 1964 si poteva credere alle stelle, e i sogni più antichi sembravano a portata di mano: conquistare lo spazio, giocare a carte con Dio, varcare la soglia di quell’infinito su cui avevano teorizzato filosofi e poeti.
Ma Oriana Fallaci non fa solo cronaca. Il suo è libro di carne e sangue, di emozioni, di inquietudini. Cattura le sensazioni e le vibrazioni della società americana di fronte alla conquista dello spazio e, nel frattempo, intesse un dialogo mentale con il padre, uomo radicato nella terra, nella tradizione, nel buonsenso. Il signor Fallaci non vuole sentire parlare di razzi e viaggi sconsiderati, non crede in queste imprese spaziali inutilmente rischiose. Lei scrive per convincerlo, ma soprattutto per convincere se stessa.
«Ogni pagina scritta per convincere lui è una pagina scritta per rassicurare se stessa di avere ragione»
Nel corso del suo viaggio, la Fallaci parla con Ray Bradbury, il cantore visionario della fantascienza, con gli astronauti, con gli ingegneri della NASA, con Von Braun e Stuhlinger, uomini che hanno fatto della Luna e di Marte un obiettivo e della scienza una fede. E alla fine di ognuna di queste conversazioni, percepisce di trovarsi a cavallo tra due esperienze: da un lato, il presente – sicuro, coerente, ma già superato; dall’altro, il futuro – incerto, spaventoso, ma che è dovere morale perseguire. Nei meccanismi del mondo di domani, Oriana sente il desiderio di tornare dove tutto è stabile. Poi si pente. Cambia idea varie volte. Fino a quando capisce che indietro non si torna, che il vento del progresso non si ferma, che il futuro – nel bene e nel male– è casa nostra.
Se il Sole muore ci insegna che, di fronte alla novità, restare immobili sulla soglia della diffidenza e scagliare anatemi contro ciò che non si comprende è un errore. Oriana diffida, sì, ma con curiosità. Si immerge nelle cose, esplora fino in fondo questa avventura disumana e apparentemente inutile che è la corsa allo spazio, e ne riemerge con un commovente inno alla vita.
Nei primi capitoli, Miss Fallaci rievoca l’infanzia: il senso di vuoto, la rabbia cieca che la assaliva quando si parlava della morte della Terra, del Sole. Per una bambina, gli astri sono immortali, come una madre e un padre.
«La morte è ingiusta. Non si dovrebbe morire dal momento in cui si nasce»
Ma ciò che ha visto e ascoltato la porta a una conclusione diversa: non esistono Inferno né Paradiso, così come non esiste la bontà. Esiste solo la vita. Si è convinta: «Hanno ragione loro, papà». Anche se, forse, agli uomini restano solo Five years sulla Terra, come urlerà David Bowie otto anni più tardi, aprendo l’epopea di Ziggy Stardust. Anche se «un albero muore, se un uomo muore, se il Sole muore», la vita continuerà a pulsare lassù, nel cielo, che «dona tante case accese».
Lo capisce quando, cercando eroi, trova uomini. Gli eroi sono soli, gli astronauti non possono esserlo. Lo capisce soprattutto quando muore il suo Teodoro – Theodore Freeman, il “poeta”, uno dei futuri astronauti del programma Apollo – e non trova disperazione nei suoi compagni. Se ne indigna. Li crede freddi, insensibili. Ma poi comprende che non è indifferenza, è accettazione. La morte non esiste, è il prezzo con cui si paga la vita. Hanno ragione loro, gli uomini gonfi di domani. E la ragione fa sempre paura.
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