25 aprile: voci, scelte e radici della libertà

Pubblicato il 25 aprile 2025 alle ore 07:54

La Liberazione tra memoria e responsabilità: le voci della Resistenza dicono perché la libertà è ancora oggi una scelta quotidiana.

Nel 1963, Oriana Fallaci incontrò Natalia Ginzburg per un’intervista destinata all’“Europeo”. Parlano di letteratura e dei figli, certo. Ma inevitabilmente il discorso scivolò su Leone – marito di Natalia, torturato fino alla morte nel carcere di Regina Coeli – e sul ricordo di quei giorni bui in cui lei gli portava da mangiare quel che riusciva a trovare. Gli aveva consegnato delle uova, non proprio fresche, due giorni prima che morisse. Per mesi la Ginzburg si straziò al pensiero che potessero averlo ucciso proprio quelle. Non sapeva che il marito, le uova, non poteva nemmeno metterle in bocca: gli avevano spaccato la mascella a furia di botte e il suo cuore smise di sopportarle. Ascoltando, Oriana strinse le unghie nei palmi e ricordò gli scampanellii improvvisi, le corse in bicicletta con i messaggi da inghiottire se fermata, l’arresto del padre, la paura di quei giorni – dall’armistizio alla Liberazione – in cui la quotidianità era fatta di episodi così.

Letteratura, intellettuali e il peso delle parole

Della Resistenza, la letteratura ha custodito memorie eroiche e sognanti, ma anche racconti asciutti, lineari, immediati, come quelli di Beppe Fenoglio. In I ventitré giorni della città di Alba, l’autore resta aderente ai fatti quasi a volerli proteggere dal rischio che potessero sfumare in pensiero, ideologia, retorica – come troppo spesso accade in Italia. Nessuna celebrazione della guerra partigiana, nessun altare alla brutale quotidianità di chi partiva e di chi ritornava a casa. Solo l’urto tra una realtà e chi l’ha vissuta: giovani coscienze che non sapevano nulla e dovevano decidere di qua o di là. Fenoglio ne dipinge alcune, con le loro luci e le loro ombre: gli attori di una storia che non ha avuto eroi, ma, di certo, ha avuto giusti e sbagliati. Perché la Resistenza non è stata una favola morale, ma un bivio. E se è vero che ogni dittatura somiglia all’altra, che la ricerca di libertà non ha colore e la lotta dell’uomo che dice ‘no’ è sempre la stessa, allora spetta al presente chiedersi: per quale società combatteva chi saliva in montagna? E per quale chi lo inseguiva?

A volte, della Resistenza ci resta niente meno che la voce. Una voce ultima, tremante, scritta con le mani ferite o ammanettate su dei supporti d’occasione: una cartina da sigaretta, un assegno, il muro della cella inciso con un chiodo o un temperino, persino una pagnotta. O affidata a un compagno, pochi istanti prima della fucilazione. Le Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana sono un lascito civile. Non ci appartengono ma, senza alcun diritto, le dobbiamo prendere in prestito – non per trasformarle in icone, ma per mantenere viva nella coscienza una comune radice da cui attingere forza. Una bandiera da stringere in mano e sventolare contro ogni interpretazione pacificatrice della Storia che vorrebbe coprire, con il velo dell’oblio, fascismo e antifascismo, confondendoli in un’unica narrazione, come se il secondo – l’antifascismo – non fosse il fondamento della nostra Casa e della nostra Costituzione. Lo ricordò con parole indelebili Piero Calamandrei – docente, giurista, partigiano – il 26 gennaio 1955, parlando agli studenti milanesi: la Costituzione è un testamento, scritto con il sangue di centomila morti. Per comprenderne l’origine, bisogna chinare il capo nei luoghi della lotta e del sacrificio: le montagne e le strade, le celle e i campi. Lì, la libertà ha preso forma e la dignità è tornata a parlare.

Ereditare non basta

Leggiamo le Lettere e ci accorgiamo di non essere orfani. Siamo figli di questi uomini che ci hanno lasciato un passato a cui guardare, con cui fare i conti, ma anche un futuro da meritare. Perché senza le radici, ogni passo si compie nel vuoto. E per sapere dove si sta andando, dove si vuole andare, bisogna conoscere da dove si proviene.

Sono lettere di un figlio alla sua mamma, al suo papà, di una madre alla sua bambina, di una sorella al fratello maggiore, di un insegnante, di un sacerdote, di un manovale, di un medico, di un carpentiere, di un dottore in legge, di un carabiniere. Lettere di uomini, di donne, di ragazzi che scelsero la loro strada e il loro nemico, che scesero a combattere anche se disarmati – tutti straordinariamente simili nel dolore e nel distacco, nella nitida consapevolezza della fine, nell’amore trattenuto, offerto quasi con pudore, sempre con una richiesta di perdono, come se non ne avessero il diritto. Uomini, donne, ragazzi, che, come scrisse lo stesso Calamandrei nell’epigrafe Lo avrai, Camerata Kesselring, «volontari si adunarono per dignità e non per odio, decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo». Tutti accomunati da una stessa lucida ebbrezza: quella di aver fatto la cosa giusta serrandosi «intorno al monumento che si chiama, ora e sempre, Resistenza». Di aver piantato, innaffiato, difeso un albero solo, da cui sarebbe nato presto il frutto della libertà.

Impedire che marcisca è il compito urgente di ognuno di noi. «Non basta la libertà che abbiamo ottenuto il 25 aprile», diceva Sandro Pertini. «Perché se ci accontentassimo della libertà in senso astratto, diverrebbe una conquista fragile». Dopo la poesia della Resistenza, è iniziata la prosa lunga e faticosa del costruire la democrazia. Un’altra storia, non meno necessaria, cominciata il giorno successivo alla Liberazione e mai davvero conclusa. Una prova, non solo di memoria, ma di volontà. E ancora una volta è Calamandrei a indicare la via, a quegli studenti che siamo tutti noi cittadini. A ricordarci che la Costituzione è un orizzonte più che un punto d’arrivo. In essa, vi si legge non solo il rifiuto del passato, ma anche la sfida al presente, al nostro oggi, ottant’anni dopo quella prima primavera di rinascita. Con lo stesso combustibile: la responsabilità. Lo stesso ossigeno vitale: la coscienza. Lo stesso fuoco: la tenacia. Perché la democrazia non si può solo ereditare: si costruisce. E si custodisce.

La fotografia è stata scattata al Museo Storico della Liberazione di Via Tasso, a Roma. Viene presentata in collage con la riproduzione editoriale all'interno di Lettere dei condannati a morte della resistenza italiana, edito da Einaudi. 

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