Racconto sull'introspezione – Specchi

specchio con cornice antica di legno di fronte a sedia di legno con cuscino di pelle

Era solito scovare dei luoghi piuttosto tranquilli e isolati dove fermare il tempo, dove stare in pace dopo giornate pesanti o momenti difficili. Un tipo talmente solitario da non parlare nemmeno con se stesso.

Da quando era possibile entrare nella vecchia scuola comunale attraverso uno squarcio nella recinzione, aveva trovato lì una vera e propria bolla fatta di silenzio e armonia, condita con un tocco di apprezzata tetraggine che l’atmosfera del luogo portava con sé.

Gli piaceva rilassarsi, tenere i problemi fuori dal buco nella recinzione.

Un giorno come gli altri, in un’evasione come le altre, sedeva sui gradini del palco della vecchia aula magna e scorse del rosso porpora attraverso una fessura tra le travi di legno marcio.

Cercò di riacquistare la spensieratezza di un attimo prima, non facendo più caso a quell’oggetto misterioso sotto di sé ma, ogni qual volta spostava lo sguardo in quella direzione, l’interesse cresceva. Alzò finalmente la trave e vide il contenuto nascosto: una busta da lettera. 

Non avrebbe mai scoperto come diavolo fosse finita laggiù ma si meravigliò di quanto si fosse conservata bene. Non doveva risalire a molto tempo prima.

Si dovette ricredere quando andò ad aprirla. La busta difendeva una strisciolina di carta estremamente sottile e gialla per il tempo, piegata su se stessa un milione di volte su cui, con una grafia minuscola ma elegante, c’era scritto: “Un migliore amico può essere semplicemente un’immagine riflessa in un vetro”.

Ripiegò il messaggio nella busta con una cura degna di un artigiano e se la mise in tasca. La sua fuga giornaliera era terminata.

Da sempre la strada di ritorno consisteva in un sentiero per i campi che conduceva al ruscello roccioso dietro casa sua ma quella volta non volle allungare e si diresse spedito verso il portone, passando per l’asfalto della via principale.

Salì in camera e tirò fuori il suo tesoro. C’era qualcosa in quelle parole che lo rapiva, suonavano come un consiglio spassionato proprio per lui.

Si alzò di scatto, corse in corridoio per poi fermarsi statuario di fronte allo specchio: l’accessorio più antico della casa, che venne spostato dalla villa di campagna di suo nonno quando morì.

Eccolo qui, faccia a faccia con un amico fedele o con la propria nemesi, in un silenzio in cui risuonavano unicamente le proprie paure che cercava di scacciare come fossero fantasmi. Paradossalmente, aveva l’atteggiamento classico di chi aspetta che l’altro faccia il primo passo e quel silenzio continuo e angoscioso venne spezzato proprio dal suo riflesso opaco per la sporcizia: “Devi lasciarmi entrare”.

Fino a dove era reale? Si chiese se l’avesse mai vissuta veramente, fino a quel momento, la realtà. Magari quel mondo da cui cercava di scappare rappresentava semplicemente il teatro di un’opera piuttosto scadente, un dramma da quattro soldi, ed entrare nel proprio giardino interiore per farci due passi era la scelta migliore.

Tra sé e sé pensò che né specchi né riflessi hanno il dono della parola. Senza ombra di dubbio quella voce proveniva dalla sua mente; impossibile, però, intendere da dove precisamente. Stette al gioco e tentò ugualmente: “Chi parla?”.

“Nessun altro che te”.

La sua testa stava scoppiando. Esclamò che gli avrebbero consigliato uno psichiatra se mai avesse raccontato tutto ciò a qualcuno, che tutte le persone a lui care si sarebbero allontanate sapendolo pazzo.

“Qual è il senso di mentire a te stesso? Tu non soffri per la solitudine bensì la cerchi. Tu non hai bisogno di niente e di nessuno per raggiungere il tuo paradiso. Tu lo stai dimostrando. Tu stai parlando con te stesso”, rimbombò la voce.

E fu così per ore, per giorni, seduto con le gambe incrociate davanti alla sua esatta copia fino a scoprire angoli nascosti mai spolverati, fino a comprendere che quei pensieri confusi che evitava da sempre erano parte di un mondo enorme, fantastico e pieno di colori: l’unica dimensione reale, l’unica meritevole di essere vissuta. 

Lì, tutte le notti, con la gola che diveniva infuocata, fino ai sorrisi o alle lacrime. “Ti devo molto, forse tutto”, arrivò a sussurrare l’ormai innamorato delle proprie facoltà.

Quell’attività, che lui si ostinava a nominare incomprensibilmente, era diventata il suo unico scopo e credo anche la sua linfa vitale. Smise di occuparsi di tutto il resto: si dimenticava di aver fame, sete o bisogno di riposare.

Quando un’anima infine si conosce, è la prima a rendersi conto della propria situazione: spiegava a se stessa di dover imparare a tagliare il filo che la legava a quel riflesso, imparare a dirgli addio prima o poi.

Ma come avrebbe potuto farlo? Sarebbe equivalso a strappare via la sua parte migliore, o la peggiore che era finalmente riuscito ad amare. Fu l’unica domanda a cui non riusciva mai a dare una risposta.

Implorava un suggerimento che non arrivava. Ogni lieve tentativo di salutare, anche brevemente, il nuovo mondo era accompagnato da crisi che aumentavano il desiderio di quella voce in modo irragionevole.

Esiste chi ne scopre l’esistenza prima di imparare a camminare e chi non ne vedrà l’ombra per tutta la vita ma una volta varcata la soglia della realtà personale, il biglietto di ritorno è inottenibile. Impossibile per lui, come per chiunque, allontanarsi da quello specchio dopo avervi assaporato la pace.

Nell’albergo della sua anima ha aperto una porta e incontrato una bestia che latrava affannata per la fame ma eternamente fedele una volta affievolita la sua gola. Quell’animale sarebbe stato sempre lì, accanto a lui e dentro di lui; senza arrendersi ma dandogli respiro.

Un compagno che non si può abbandonare ma con cui bisogna imparare a convivere. E lui voleva farlo, sentiva la disponibilità, rumorosa e violenta, a voler riconnettere le caselle cadute con quelle trovate nelle tasche infinite.

Eccolo lì, immobile, provando gioia e spavento al tempo stesso: era stato intrapreso il percorso che però lo conduceva verso un buio terrificante e sublime. Con la mente sempre inquadrata sulla conoscenza di sé, si sentiva un neonato incapace di tutto, che impara pian piano ogni cosa da zero.

Scena straziante era vedere quel poveretto provare a mangiare senza iniziare a sognare; mettersi a letto cento volte dopo aver fatto scorrere ancora gli occhi sul suo riflesso. Persino fare qualche passo gli era difficile. Come aggrappato all’orlo di un precipizio, si concentrava sul suo respiro ormai troppo svogliato.

“Da qualche tratto, questo disegno dovrà pur iniziare…”, sussurrava invano, mentre la vista appannata di quel pranzo ormai gelido quanto il ricordo dell’ultimo sonno vissuto gli consentivano solamente di ritrovarsi davanti alla sua porta nascosta.

Notava teneramente come gli risultava semplice camminare lì: correva leggero insieme all’amico con cui condivideva la sostanza, cantando su note che anche la pioggia avrebbe voluto origliare.

Proprio in quel prato eternamente fiorito – quando l’audace e violenta coscienza di voler fuggire a quello splendore spazzava via il resto – senza accorgersene l’uscio si accostava sempre di più, fino a sparire dietro di lui così come comparve.

E mentre al di fuori i tuoni preludevano paure e, con i lampioni, i lampi accendevano il buio – in quell’istante, esattamente lì – il suo intimo spazio sembrava fatto di luce e dimenticò come seguiva la notte.

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