Le vere storie d’amore danzano nell’ombra, iniziano con un sussurro; sono il fruscio sottile e silenzioso di una foglia che cade a terra ondeggiando. Per pochi istanti le tiene in aria un labile vento lontano che si sposta verso una persona precisa. Un vento che va seguito. Trascurarlo potrebbe significare privarsi di vivere appieno la propria storia.
Si girò verso di lei, dimenticandosi il motivo per cui era lì. Era una graziosissima signora con i capelli bianchi raccolti con cura sul lato. L’operatore richiamò la sua attenzione e quindi, scocciata, si affrettò a sbrigare quelle faccende, allungandosi in continuazione sulla sedia per tenere sotto controllo la donna. Poteva essere un’omonima, ma era così eccitata da renderle difficile pensare che fosse un semplice caso. Mille scenari possibili si svilupparono nella sua mente e, in ognuno di essi, li avrebbe fatti incontrare ancora. Scappò fuori ad aspettarla.
“Vittoria, giusto? Non mi permetterei di disturbarla se udire il suo nome poco fa non mi avesse ricordato una vecchia storia.” Si presentò e chiese se avesse avuto piacere di ascoltarla.
“Oh tesoro, mi fermerei volentieri ma i miei nipotini verranno a trovarmi a pranzo. Che ne dici di vederci nel pomeriggio al Sant’Eustachio per un caffè?”
Più tardi, sedute all’aperto, Vittoria confessò di essere davvero stuzzicata da ciò che stava per udire, così Isabella – mentre spezzettava in mille brandelli l’ennesimo tovagliolino per l’agitazione – cominciò a raccontare dell’annuncio, di Filippo e del suo carattere, del loro rapporto e infine del loro ultimo dialogo. Il linguaggio del corpo tradì l’anziana signora: la menzione di quel nome la fece irrigidire.
“Mi piaceva chiamarlo ‘il mio principe consorte’. È con lui che ho imparato ad amare. Hai presente quel posto tutto nostro dove ci si nasconde nei momenti bui? Ecco, lui faceva parte anche di quel posto. Rimbalzava questo cuore tra le pareti strette del mio petto, fino a trovare dimora, teneramente cullato dalle sue mani. Non ricordo esattamente come ci siamo persi ma potrei giurare di averlo portato dentro di me ovunque: nelle mani che ho sfiorato, nei passi che ho compiuto, nei posti in cui mi sono persa. Ero sicura che un giorno mi sarei voltata per caso e l’avrei trovato lì, di fronte a me, ma non successe mai. Dopo di che l’orchestra del cuore in un diminuendo lento smise di suonare e il mondo ricominciò a parlare. Ciò che ci comanda aveva altri piani per me e li accettai. Sono felice di quello che ho avuto: un marito splendido che mi ha adorato fino all’ultimo giorno, con cui ho costruito una famiglia invidiabile.”

Con gli occhi gonfi di lacrime, la ragazza tentò: “E se invece il destino avesse qualcos’altro in serbo per lei? Non trova la coincidenza di essersi imbattuta in me un’altra possibilità che vi è stata offerta? Uno sguardo, un solo sguardo basterebbe a far capire a entrambi che ne è valsa la pena. Incontrarvi un’altra volta, per la prima volta.”
A volte tra i solchi della voce si svelano significati nascosti ma quando è il corpo a parlare, nell’armonia dei gesti si trova la verità più pura. Vittoria disse sì senza dirlo, Isabella lo comprese. E come per sigillare il loro accordo, la donna tirò fuori dalla sua borsa qualcosa: era una pallina da tennis Pirelli, ormai appiattita e scolorita.
“6 maggio 1957. Il grande Pietrangeli trionfa al Foro Italico battendo Giuseppe Merlo. Eravamo insieme quel giorno, ricordo che entrambi indossavamo qualcosa di bianco. Trovammo questa pallina al di fuori dello Stadio del Tennis e, come ci siamo promessi, ancora la conservo gelosamente. Dolce Isabella, mi hai fatto tornare di nuovo diciottenne!”
Si organizzarono per il venerdì, di lì a due giorni. Quella mattina da Filippo si sarebbero presentate semplicemente in due.

“Che strano. Non mi ha mai fatto aspettare.” esclamò stupita la giovane ragazza il giorno seguente, quando nessuno le aprì il portone al numero 9 di Via del Corallo.
“Signorì, cerca qualcuno?” le chiese il portiere, mentre spazzava controvoglia i sampietrini. E un sussurro di ghiaccio percorse le sue vene quando apprese che Filippo era stato trasportato d’urgenza in ospedale a causa di un malore improvviso avvertito poche ore prima mentre stava buttando l’immondizia. Tremante, chiamò Alessandro che dovette ripetere tre volte prima che lei comprendesse le sue parole: si trovavano al Fatebenefratelli. Non fece in tempo ad attaccare che iniziò una corsa sfrenata. Rischiò svariate volte di farsi investire, in mezzo alle strade già affollate, colpì involontariamente tre persone; riprese fiato solo a Piazza delle Cinque Scole prima di arrivare, stremata e ansimante, all’ospedale.
Chiese del paziente. Fuori la stanza 302 c’era Alessandro. Ancora una volta la sua voce arrivò ovattata alle orecchie di Isabella: comprese solamente che il padre si trovava in stato di coma e che i medici non potevano prevedere quando o se si sarebbe svegliato.
“Vuoi vederlo? Sembra dorma."
Cautamente, Isabella entrò nella stanza in punta di piedi e si sedette di fronte al letto. Esplose. Rimase immobile tra i singhiozzi per due ore, il volto sepolto tra le mani, finché non tornò il figlio e le fece cenno di raggiungerla fuori.
“Sai niente di questo?!”, domandò accigliato, tenendo in mano un vecchio registratore a cassette, “Ieri mio padre ha registrato la sua voce con questo e temo che fosse già fuori di sé. Dice cose senza alcuna logica! Ascolta tu stessa...”
Cara Vittoria,
stamattina è capitato che parlassi di te a cuor nudo, dopo un’eternità. Per moltissimo tempo ho pensato che la vita non chiede mai cosa vogliamo davvero e per questo non ho mai preteso niente di più per me. Credo di aver paura, vuoi saperlo? Paura della fine. Oggi però ho fatto un patto con me stesso: se solo avessi la sicurezza che tu stia bene, che non mi abbia dimenticato, smetterei di averne.
Non credere che sia cambiato di un virgola. Sono il solito cinico convinto che l’esistenza non sia che una serie di treni da prendere al volo e che, solo dopo esserci saliti su, o averli persi, si capisce se fossero quelli che stavamo aspettando, senza una seconda possibilità. Ti chiederai allora perché stia registrando le mie parole. Avresti dovuto osservare l’espressione di Isabella dopo aver conosciuto il nostro racconto, la stessa di chi avrebbe passato in rassegna tutti i palazzi di Roma pur di trovarti, di farci ritrovare. Quindi sono sicuro che tu, prima o poi, mi ascolterai.
Forse non ne sono stato sempre consapevole, ma ogni volta che ho riflettuto sulla mia capacità di amare qualcosa o qualcuno, mi sei tornata in mente prima che potessi rispondere “Tanto così”.
La ragazza venne invasa da una gelida sinfonia. Filippo aveva capito. Uscì dall’ospedale e, con calma, riuscì a informare di ogni cosa Vittoria, che le promise di arrivare in taxi al più presto. Le sue gambe magre e stanche giunsero davanti alla 302 e Alessandro, come sempre infastidito, si interrogò ad alta voce su chi fosse quella signora. Isabella lo prese in disparte per spiegargli tutto, così da permettere a Vittoria di entrare. Occupò la sedia e la sistemò con l’intenzione di avvicinarsi il più possibile al diciottenne che fu il suo primo tutto. Fissò quel corpo steso sul letto, cercando dentro di sé il coraggio per iniziare a parlare.
“Chi l’avrebbe mai detto che avremmo dovuto ringraziare il destino io e te. Non mi aspettavo nemmeno che il nostro angelo custode avesse nome e cognome.” dopo una lunga pausa riprese “Vuoi saperlo? Non sono mai stata arrabbiata con te, né con me. Volevo fossi l’amore della mia vita, e forse lo eri; per te ho pianto il mare, avrei percorso il mondo intero, ma non ti ho mai odiato perché ero convinta che un po’ del mio cuore fosse rimasto con te. Quando la nostra Isabella mi ha fermata, le ho mostrato la nostra pallina; te la ricordi? Vederla nelle mani di qualcun altro mi ha fatto realizzare che in fondo siamo vissuti sempre così vicini, di non essere mai stata senza di te veramente.” Allora prese la sua mano e la avvicinò alla guancia.
Da quelle deboli dita nacque un sussulto, così improvviso che Vittoria si spaventò. Per un attimo, Filippo aprì gli occhi con estrema fatica. Forse, solo forse, aveva sentito ogni cosa e Dio solo sa se la vide. Lottò col suo stesso corpo per rimanere sveglio ancora un istante. Le sue palpebre, però, si chiusero pesanti per l’ultima volta, mentre sul suo volto si disegnò quasi un sorriso. Aveva mantenuto la promessa a se stesso e in quel momento, con l’ultimo battito del cuore, scelse di andarsene felice.
Per ogni luogo della città di Roma citato nel racconto, ho inserito il link di Google Maps affinché sia più facile orientarsi.
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