Le mani di ogni artista si muovono tracciando i confini dell’ossessione, ma solo a chi batte il cuore è concesso danzare sul filo di un’arte chiamata amore.

In una fredda Milano dove le strade s’incrociano come pensieri fugaci e i turisti fotografano i palazzi d’epoca, un giovane fuorisede di nome Alberto non si era ancora abituato ai ritmi della città e trascorreva il tempo libero a dipingere la sua compiaciuta solitudine, sperando che ogni pennellata potesse cancellare la distanza che lo separava da casa. In un momento di impasse creativa, decise di abbandonare il suo monolocale in Brera per respirare la vivacità del centro. Trovò riparo nel suo locale preferito, di gusto moderno industrial-chic, in cui il profumo del gin negli shaker creava un’armonia insolita. La sua attenzione fu rapita da una coppia di ragazze probabilmente straniere, o meglio, da una delle due: una bellezza orientale, sopracciglia folte e occhi neri, grandi da tremarci dentro. Le due sbirciavano nella direzione di Alberto e ridevano, complici in un dialogo che sembrava avere al centro proprio lui. E infatti – chi l’avrebbe mai detto – fu lei a superare il confine dell’incertezza, avvicinandosi sorridente, trascinando anche la sua amica.
Si chiamava Yuga. Cinese, di Xi'an. La conversazione si svolse in uno sporco inglese, ma che importanza aveva? Insieme alle sfumature dei gesti, le parole trascinarono quei due in un mondo condiviso. L’amica, avendo notato una certa complicità, finse una telefonata e uscì seccata dal locale. Parlarono della loro vita, di musica, della pittura di Alberto; amavano entrambi quel posto elegante e internazionale, ma non si erano mai visti prima. Lei era a Milano da sei mesi per studiare arti visive. Rimasero lì, a guardarsi timidi ancora per un po’. Anche lui aveva gli occhi scuri, di un cioccolato profondo, ma raccontavano storie diverse con quei colori mediterranei. Rientrò la guastafeste, facendo capire a Yuga che era ora di andare. Allora si salutarono, e lui, con un gesto gentile, le baciò la mano. Non pensarono a scambiarsi il numero o altro, come se fossero entrambi certi di essere entrati con irruenza l’uno nella vita dell’altra. La vide rubargli un ultimo sguardo prima di scomparire oltre l’uscita, e pensava che il burattinaio dei loro fili li avrebbe riuniti senza sforzo. Ma, in realtà, oltre al nome e alle confessioni fatte poco prima, non c’era nulla a cui potersi aggrappare.
Tornato a casa, Alberto sentiva il sangue bollire nelle vene. L’adrenalina pulsava, alimentando un nuovo slancio artistico: voleva ritrarla in un disegno. Sistemò un foglio sulla scrivania e scelse con cura le matite. Da dove iniziare? Provò a sfumare le forme, ma questo primo tentativo si rivelò insufficiente. Ogni tratto sembrava perdersi nell’incertezza, senza riuscire nell’intento di dare materialità alle immagini che gli sfrecciavano in testa, senza tradirle. Passò ore tra la carta appallottolata e gli occhi gonfi dal nervoso. Qual era il problema? Era in grado di rendere le fossette sulle guance e il naso arricciato in una risata, le gambe incrociate nelle calze sotto il tavolo ma impedito a disegnarla nel suo insieme. Il sole provava a spuntare e lui si mise a letto con l’irresistibile ansia di vederla di nuovo.
Tornò più volte in quel locale, ma l’appuntamento ideale sembrava eluderlo come un’ombra fugace. Chiese perfino teneramente al barista di promettergli che, se mai avesse visto Yuga, le avrebbe detto che lui la cercava. Quello annuì, ma Alberto non poteva fare a meno di nutrire dubbi sul fatto che l’avrebbe fatto. Più non riusciva a darle forma, più nello stomaco sentiva come se stesse tenendo un animale selvaggio; aveva paura di essere morso e che il cuore gli si dissolvesse in un istante. Era caduto in un limbo da cui voleva uscire.
Lo colse un’idea. Uscì per acquistare delle piccole tavole e si immerse nella pittura per rendere Yuga effettivamente presente nella sua vita, almeno in questo modo. Se non poteva immortalarla globalmente, era pur vero che possedeva tanti piccoli particolari di lei, come frammenti di qualcosa di troppo grande da tenere tra le mani. La mano di lei slanciata come una nota di danza, con un bracciale d’oro a cingerle il polso e un anello all’indice. Di spalle, con il volto concentrato verso qualcosa in alto e i capelli corvini annodati in una treccia a corona. Un vestito di seta bianca luccicante che cade sul suo corpo. Le perle alle orecchie, troppo piccole per un secondo buco. E molti altri ancora.
Esausto, Alberto terminò il suo lavoro e le sue pupille si fissarono su ogni angolo delle tavole, eppure un vuoto lo avvolse. Mancava lei, mancava concretamente. Si passò la mano sulla fronte, la stanchezza gli pesava sulle braccia. E se non l’avesse mai più incontrata? La prospettiva lo tormentava, mentre era circondato da colori che parlavano mandarino. Eppure tutte le strade del centro di Milano conoscevano ormai il ritmo dei suoi passi; ogni volta che saliva in metro, che prendeva un tram sperava fosse la volta buona che lei fosse lì, seduta. Non cercava la pentola d'oro in fondo, voleva solo che lei sapesse, che lei ricordasse e consegnarle la lettera che aveva scritto, forse nel peggior inglese del mondo. Faceva così:
Nella mia memoria ho pochissime fotografie in cui sei presente, rare occasioni per costruire ricordi. Questa mancanza è strana, mi crea disagio: ne sono invaso eppure mi sento vuoto. Allora chiudo gli occhi, disegno i tuoi colori e creo tutto il resto. Certo, non riesce a bastarmi, ma fingo che sia così.
È come se avessi riacceso in me tutti i sensi e, dal momento in cui sei tornata a casa quella sera, scorressero dentro e sopra il mio corpo come acqua salata, bruciando su ogni ferita.
Mi piacerebbe dare un nome a tutto questo, modellarlo per poterlo tenere tra le mani, studiarlo fino a comprenderlo. Infine donartelo, affinché non sia più solo mio: guancia a guancia in una sola conchiglia, per ascoltare lo stesso mare.
Il tempo passava senza lasciare traccia di Yuga, come l’eco in una vallata che si disperde nell’attesa di una risposta che non arriva mai. La speranza di Alberto, un fiore mattutino, si appassì lentamente sotto il peso dell’incertezza. Cosa fare dei dipinti che portavano impressa l’assenza di lei? Impacchettò tutto con cura e li portò a Parco Sempione, dove li sistemò allineati sui cavalletti come pagine di un diario incompiuto. Si fermò lì per qualche ora, nel ruolo di custode malinconico di quello che non è potuto essere. A ogni curioso passante raccontava la storia di quell’opera d’arte fallita e il verde diventò un palcoscenico improvvisato per lui.
A passare di lì fu anche un carabiniere in borghese che, colto dalla passione nella narrazione di Alberto, gli spiegò con gentilezza che non poteva essere esposto niente senza l’autorizzazione comunale; se fosse passata una pattuglia, la multa sarebbe stata inevitabile. Il ragazzo sentì di essere catapultato definitivamente nella dura realtà, come se l’amara constatazione gli avesse squarciato l’illusione di poter mantenere viva la speranza. Fece male. Immobile, fissò le tavole per qualche secondo ancora, prima di iniziare a smontarle con una delicatezza quasi chirurgica, come se stesse muovendo quella pelle chiara che lo aveva incantato.
Era quasi a metà dell’opera, il cielo si stava preparando a tingersi di rosso e una voce straniera maschile interruppe il silenzio, chiedendo: “Scusate, di cosa si tratta?”
Alberto si voltò e vide Yuga, con la mano nella mano di uno sconosciuto ben vestito e dai pesanti occhi a mandorla. Visibilmente scossa anche lei, quasi come d’istinto, tirò via la mano che finì nella tasca del cappotto. Il pittore sorrise e finalmente si liberò del groppo che gli pesava sulla gola come un macigno. Omettendo l'identità dell'oggetto del desiderio, svelò alla coppia – in realtà solo a Yuga – l’impotenza, il rimorso, il desiderio quasi ossessivo; descrisse ogni flash in cui un profilo gli era sembrato quello che cercava e la delusione nel verificare il contrario. Non tralasciò niente, terminando di parlare con gli zigomi tremanti e gli occhi gonfi.
Nelle espressioni di Yuga si leggevano mille pensieri intrappolati. Voleva dirgli qualcosa. Forse anche lei l’aveva pensato, chi lo sa, magari anche cercato. La presenza accanto a lei, però, la costringeva al silenzio, a fingere.
La coppia se ne stava andando quando lei si voltò velocemente e chiese ad Alberto: “Posso averne una? Voglio conservare il ricordo… della tua storia.” Erano così vicini. Lui non trovava le parole per dirle di sì, pur sforzandosi.
“Non fa niente...” sussurrò lei, mentre cercava di trattenere le lacrime.
Vedendola, ancora di spalle, scappare via di nuovo, Alberto urlò: “Aspetta!”. Ridusse la distanza da lei e cercò freneticamente qualcosa nella tasca sinistra. Tirando fuori la lettera e un disegno, le disse: “Questa è stata l’idea originale, scarabocchiata quella notte dopo essere tornato a casa, incapace di rendere ciò che era entrato nel mio cuore. Tu... lei di fronte a me, quando la notai per la prima volta.” Poi indicò la lettera: “Conservala con te, è tua. Io, da questo momento, ho smesso di cercare il destinatario."
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