“Papà, ti voglio bene.” disse Anna camminando, “so bene che sei qui per me, e per mamma.”
Procedeva lento con le mani in tasca Alessandro, a passi ondeggianti. Alzò lo sguardo e le sorrise.
Dopo la morte della moglie, Melissa, egli trascorreva il suo tempo tra lo studio di casa e la galleria d’arte moderna in cui lavorava, e lì accadevano ormai tutte le cose reali della sua vita. Aveva perso ogni contatto con la famiglia di lei, che non aveva mai amato così tanto, ma, quel giorno, aveva preso il treno per Roma e si stava recando, insieme alla figlia, al ricevimento per gli ottanta anni del suocero. Anna aveva ragione. Avrebbe volentieri utilizzato la solita scusa del lavoro per evitare le consuete forzature delle rimpatriate che tanto detestava. Invece, stavolta si era lasciato convincere dalle sue due più grandi debolezze: il miele negli occhi di Anna e Roma ad agosto, l’unica città più bella di Roma.
Avanzavano tra i platani di quel viale, inondati dalla luce dorata del tardo pomeriggio estivo, e, arrivati davanti alle barre di ferro battuto di un cancello che chiudeva un elegante palazzo signorile, Anna lesse il civico: 112.
“Eccoci! Andiamo, papà.” esclamò, premendo l’interno 9 sul citofono.
Alessandro attendeva subito dietro, massaggiando delicatamente le spalle della figlia. All’improvviso, un impulso lo spinse a voltarsi di nuovo verso la strada, come colto da un moto involontario. Quel gesto, così rapido, lo mise faccia a faccia con il destino, che, come un ladro, aspettava acquattato dietro a un muro. Qualcosa catturò la sua attenzione: un motorino parcheggiato lì, sul marciapiede. Avvicinandosi, notò come, legato allo specchietto, c’era un braccialetto di stoffa azzurra, sbiadito e consumato dal tempo, con un piccolo tricolore ricamato sopra. Un semplice oggetto, eppure sufficiente a fargli bagnare la fronte di sudore, mentre le sue mani si facevano fredde e tremanti.
“Papà, che succede? Ci stanno aspettando; dobbiamo salire.”
Distolto dai suoi pensieri, guardò nervosamente l’orologio e rispose: “Sì, certo… siamo in anticipo. Ho dimenticato le sigarette in hotel! Perché non vai avanti tu? Vado a comprarle e vi raggiungo subito.”
Anna fece un sospiro, ma annuì e, senza dire altro, attraversò il cancello, che si richiuse alle sue spalle.
Alessandro si perse a lungo nei meandri del suo turbamento, interrogando quel ricordo così vivido. Con il capo vagò intorno per cercarne nell’aria qualche altra traccia. Lasciandosi guidare da una strada fatta di sensazioni, profumi indistinti e parole sconnesse di conversazioni dimenticate, si ritrovò su una scalinata, che faceva da raccordo tra due freschi vicoli ombrosi. Vi si sedette, senza badare ai pantaloni chiari che si sarebbero sporcati.

Chiudendo gli occhi, Alessandro poteva ancora percepire le spinte, gli abbracci, le grida di gioia di quell’estate del 2006, quando la coppa del mondo aveva reso tutti figli di un’unica madre. Milano pulsava di entusiasmo, vibrante fino a scoppiare, e lui aveva sfilato quel bracciale azzurro da un mazzo che un ragazzo, aggrappato a un lampione, distribuiva tra la folla. Il suo primo pensiero fu stringerlo al polso di Raffaella. Il giorno dopo, lei lo annodò allo specchietto della sua vecchia Vespa, che la accompagnava, un po’ singhiozzante, ovunque.
Pronunciò più volte quel nome, ad alta voce. Raffaella, la cugina di Melissa, che già allora era fidanzata con Alessandro; era venuta a Milano proprio per studiare storia dell’arte a Brera, e lì lo aveva conosciuto, non solo come compagno di corso, ma condividendo con lui anche la comitiva di amici. Lei, romana, con le sue onde bionde che incorniciavano un’anima sognatrice, era l’opposto della cugina, studentessa meneghina di architettura con la passione per i numeri e la geometria. Alessandro, per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare il primo incontro con Raffaella, ma era certo che gli apparve davanti, poi ancora, fino a diventare quotidianità. È sempre stata lì, a parlargli dolcemente, a ridere amorevolmente, a sconvolgergli il petto senza che lui capisse esattamente perché. E senza volerlo, si pregavano di un altro sguardo, e si sentivano nudi lontani l’uno dall’altra.
Alessandro prese a disegnarne i contorni sulle crepe di quella scalinata. Era bella che sembrava non rendersene conto. Quella sua riservatezza la faceva apparire inaccessibile, ma era un sorriso contagioso a svelarla: insieme a due occhioni scuri appena rivolti all’ingiù, rivelava più di quanto la sua voce stessa osasse confessare. Brillava camminando col suo vitino da vespa, senza immaginare quante ragazzi ispirasse, semplicemente essendo ciò che era.
Raffaella scrutava la sincerità dell’amico, la sua autenticità così disarmante che nemmeno i riccioli neri riuscivano a celare. Lo osservava, cercando di cogliere in lui quelle stesse sensazioni che le percorrevano le vene: la chiara percezione che qualcosa strisciasse solamente sotto i loro piedi, sfuggendo a tutti gli altri. Non solo negli sguardi, ma anche nei pensieri silenziosi, che non avevano bisogno di essere espressi per essere compresi. Eppure, erano impotenti di fronte a quella realtà che li avvolgeva. Tra laboratori ed esami, tra tavole e ripassi dell’ultimo minuto, la semplice presenza dell’uno era uno stimolo per l’altro, un balsamo taciturno che ammorbidiva e illuminava quei due cuori. Le loro menti si nutrivano a vicenda, stimolando idee, risolvendo enigmi, trovando risposte. Due anime che si riconoscevano, senza mai chiamarsi.
Si alzò di scatto da quei gradini, ma solo per trovare rifugio su una panca di marmo poco più avanti. Un sorriso amaro gli serrava le labbra nelle sue riflessioni. Non avevano neppure mai parlato di quel che comprendevano solo loro, consci dell’impossibilità di qualunque cosa. Restavano lì a guardarsi e tiravano a indovinare che cosa accadesse tra loro. Senza pretendere niente l’uno dall’altra, per Melissa. Per cinque anni era stato così, non desiderando mai di trovarsi altrove, in qualcun altro, dal momento che sarebbe stato inutile. A ogni tentativo, quell’eco sarebbe tornato con forza, nei sogni, nel corpo, nel cuore.
Con fatica, Alessandro tirò fuori il portafogli dalla tasca sudata e si mise a cercare in uno scomparto ormai incollato dal tempo. Una fototessera di Melissa, un autografo ormai illeggibile e un biglietto del treno mezzo strappato. Milano-Roma, 1° maggio 2006.
“Io e Lalla andiamo a Roma in giornata. Pensavamo di mangiare al volo dai suoi genitori per salutarli, prima di andare al Concertone.” ripeteva Alessandro, ora che le parole dimenticate di Melissa ripercorrevano a ritroso le vie dell’inconscio.
Ma la mattina della partenza, Melissa si svegliò con un ascesso al dente e un dolore che le rendeva impossibile anche tenere gli occhi aperti. Nonostante l’imprevisto, insistette affinché Raffaella andasse comunque, e obbligò Alessandro ad accompagnarla. Scherzò dicendo che avrebbero potuto sfruttare il viaggio in treno per studiare insieme e organizzare la prossima sessione di esami. In quel momento di decisioni frettolose, Raffaella, pur mantenendo il suo consueto riserbo, non riusciva a nascondere una tacita felicità che le illuminava il volto, mentre Alessandro, combattuto per un attimo, decise di assecondare la fidanzata.
In quella carrozza, seduto accanto a lei, dimenticò tutto ciò che si era promesso di fare in viaggio, proprio come i bambini che, immersi nella gioia delle feste di compleanno, scordano persino di avere sete. Poi l’emozione di respirare Roma, il pranzo timido dai genitori di lei, il sugo sulla maglietta, i bignè alla crema presi apposta. E ancora, il pomeriggio a San Giovanni, con la pioggia che batteva sui giacchetti di jeans, le risate, le sigarette, e la febbre che arrossava le guance. Raffaella a saltare sulle hit di Sanremo, mentre a lui, occhi chiusi e braccia distese, bruciavano in gola i versi dei grandi della canzone d’autore, da Modugno a Battisti, Tenco e Battiato. L’indomani a lezione, con le occhiaie profonde e il raffreddore, a dimenticarsi di Böcklin per raccontare freneticamente quella meravigliosa giornata a chiunque, facendo attenzione a non dimenticare neppure un inutile particolare, un inutile frammento in cui risiedeva la scintilla di quella felicità.
Intanto, però, maggio diventava giugno, e giugno luglio. I mesi si inseguivano, le stagioni cambiavano volto, trascinando con sé i giorni, mentre momenti come quello non sempre bastavano a cancellare le ombre più profonde. La testa persa nel vuoto, quando la realtà quotidiana calava il velo della cruda verità, e le bestemmie ingoiate, senza alcuna pretesa, pesavano rumorose. Infine, l’ultimo granello di sabbia nella clessidra della loro storia si sedette in cima agli altri.
Arrivò il giorno della laurea, l’ultimo all’ombra dell’Accademia delle Belle Arti, che aveva cullato e alimentato quella loro bizzarra follia. Ma in un momento così importante, ad Alessandro apparve così insignificante la proclamazione, così sgradevoli gli applausi e le congratulazioni, quando, mentre cingeva il fianco di Raffaella per una foto, si sentì sussurrare all’orecchio una frase che faticò a comprendere appieno, tanto era inaspettata: “Domani torno a Roma, ho un colloquio laggiù; mi trasferisco di nuovo a casa.”
Difficile spiegare il gelo che lo pervase, impedendogli di parlare. Un fischio sordo riempiva le sue orecchie, mentre fissava i fiori intrecciati nella corona di lei, impotente e muto, come era stato, in fondo, per tutti quegli anni. Cosa dire alla persona che si ama più di tutto, mentre la si vede scivolare via, davanti ai propri occhi? Il mondo attorno a lui continuava a girare e Melissa lo tirava per la cravatta, cercando di attirarlo a sé, ignara che, per lui, il sole era caduto dal cielo.
Il giorno seguente, Raffaella salì sul treno che la restituiva a Roma, portando via con sé tutto ciò che contava, perché era tutto per Alessandro, l’essenza stessa della sua autenticità. Per lui non rimase che il vuoto, i ricordi, la malinconia. Non era preparato a quello che sarebbe venuto. Lo terrorizzava la consapevolezza di quanto fosse sottile la lastra di ghiaccio sotto i suoi passi da quando aveva intrecciato il cuore a qualcosa di così vivo. Forse fuggì per sottrarsi al dolore, per la stanchezza di vivere a metà, o forse temeva di far crollare quella colonna pericolante su cui entrambi si erano sostenuti per tutto quel tempo. Qualunque fosse la ragione, era chiaro che Raffaella non aveva trovato il coraggio di svelargli quella decisione presa da tempo, fino all’ultimo, e anche allora le parole le erano scivolate fuori, quasi senza volerlo.
Non si videro più, non si sentirono più, e i loro nomi non furono mai più oggetto di discussione. Ogni volta che Melissa menzionava la cugina, Alessandro riusciva abilmente a deviare la conversazione, come se quei semplici suoni legati in catena potessero far crollare il fragile equilibrio che aveva costruito. Eppure, a volte, Alessandro si chiedeva se davvero fossero stati così bravi a nascondere tutto questo, dal momento che nessuno gli chiese mai di lei. Forse, in fondo, lo sapevano tutti.
La vita proseguì: il lavoro, la casa, Anna. Tuttavia, anche nei momenti più felici, sotto il cielo più limpido, una nuvola attraversava sempre il suo orizzonte. Una piaga sul suo cuore, una cicatrice invisibile, ma indelebile. E alla vista di quella piega, egli perdeva il controllo del sistema di difesa che aveva costruito con tanta cura. Le parole, imprigionate, scappavano via, andando a brillare nei suoi occhi, mentre un sorriso malinconico gli si disegnava sulle labbra.
Il telefono gli vibrò nella tasca, ma l’interruzione gli sfuggì quasi del tutto. Continuava a vibrare. I suoi pensieri erano altrove, distanti da quel presente. Quando infine rispose, non fu una sorpresa scoprire che era Anna. Si alzò lentamente, batté le mani sui pantaloni per ripulirsi dallo sporco e dalla polvere, e si voltò per andare da lei. Da Anna. E da Raffaella.
“Siamo al terzo piano,” aveva detto la figlia, “la prima porta sulla sinistra.”
Alessandro rimase fermo davanti all’ascensore, consapevole che, una volta entrato, non ci sarebbe stato più tempo per respirare. Avrebbe trovato la porta aperta, e Raffaella sarebbe stata lì, in mezzo agli altri. Lei, che si emozionava davanti a Nuovo Cinema Paradiso, che cantava Mille giorni di te e di me tra i chiostri in università, con l’odio per il conformismo e l’amore per la fotografia, ora era lì, diventata chissà che cosa. Chiudendo gli occhi, fece un passo e premette il tasto 3.
“Papà! Ti stiamo aspettando…” lo chiamò Anna, prendendogli la mano e trascinandolo dentro quella sala piena di voci. Lui, però, non riusciva a udire nulla, come in quei momenti in cui avrebbe voluto che i silenzi facessero apparire un altro volto rispetto a quello di Raffaella. Ma il desiderio restò ancora inappagato. La vide di spalle, i soliti capelli biondi che ricadevano su un vestito nero con le spalline adornate di perle. Aveva le mani immerse nella borsetta poggiata su un tavolo di vetro, a cercare qualcosa, o a fare finta. Eccola, la ragazza diventata donna, il filo rosso di tutte le sue notti. Fece qualche passo e, finalmente, lei inclinò il volto verso sinistra. Nei suoi lineamenti, Alessandro lesse i diciassette anni che li avevano separati. Nei suoi respiri affannosi si rifletteva la consapevolezza di aver vissuto sempre nel ricordo giovanile di lei, di non averla mai potuta odiare. La studiava con lo sguardo, cercando di srotolare il tempo perduto, di annullare quella voragine. Raffaella, a sua volta, cercava nelle labbra di lui le parole mai pronunciate, anche quelle che avrebbero potuto ferirla. Alessandro si avvicinò al tavolo e le si fermò accanto.
Osservavano la sala, spalla a spalla, entrambi in attesa che l’altro rompesse gli indugi. Fu Alessandro a parlare per primo: “Com’è Roma di questi tempi?”
Lei sorrise: “Un caos, come sempre, ma ti abbraccia con il sole, e ti ritrovi a perdonarla ogni volta.”
Andarono avanti a chiacchierare, ricordando quei quaderni sulle neoavanguardie che Alessandro non le aveva mai restituito. Il lavoro, quel concerto all’Olimpico dai biglietti introvabili, il ricevimento appena organizzato. Abbozzarono sorrisi e scherzi, mentre i loro cuori battevano con la forza dei ricordi e la delicatezza di chi teme di sfiorare un cristallo fragile, entrambi attenti a non mostrare la tempesta di emozioni che li travolgeva. Ma cos’era a mancare? C’erano stati momenti in cui il ricordo dell’altro era bruciato sui loro corpi come un fuoco inestinguibile; ora, vicini, dov’era finita quella connessione profonda che, un tempo, avrebbe potuto essere incendiata da un semplice tocco? Ne riconoscevano la traccia, ma ormai era una brace quasi morta. Era su quelle mani che Raffaella avrebbe voluto riposare per sempre, su quella fronte Alessandro desiderava imprimere i suoi baci di conforto. E ora, cosa restava?
Tra canapè e stuzzichini al formaggio, giunse il momento della torta. Le persone iniziavano a salutarsi, a scambiarsi complimenti e considerazioni. Alessandro, pensieroso, si appoggiava a una colonna che affacciava sulla terrazza, con lo sguardo oltre il vetro.
“Ho cercato leggerezza per un cuore, il mio, che pesava come una pietra,” sussurrò Raffaella, comparendo silenziosa alle sue spalle.
Lui non rispose, intuendo che quelle parole non erano finite lì. E infatti, riprese: “Sono stati i nostri giorni più belli, ma anche i più dolorosi.”
Tutto nello sguardo, nel rossore, negli occhi di Raffaella rivelava in lei un’attesa angosciosa. Ci si leggeva il bisogno disperato che lui parlasse, che le togliesse quel fardello di incertezza, la paura di aver frainteso tutto, di aver suonato la nota sbagliata in quello spartito che, dopo diciassette anni, ricordava ancora a memoria. Ma la lingua di Alessandro restava impigliata nel silenzio, e le sue gambe immobili, mentre dentro di lui ardeva il desiderio di colmare quella distanza in punta di piedi. Abbracciarla. Farle capire che sapeva già tutto e l’aveva perdonata da tempo. Lei era andata via, ma lui non l’aveva mai seguita. Forse fu paura, forse coraggio. L’amore giovanile è un sogno da cui poi ci si sveglia per ritornare a vivere, ma loro avevano scelto un’altra strada, entrambi: vivere come se stessero sempre sognando, fino a quel momento.
Riuscì a prenderle la mano, e tenerla stretta tra le sue. “Coltivare desideri è così… alcuni crescono, altri no. L’unica cosa che si può fare è prendersene cura. E, sai, non credo si possa fare meglio di come abbiamo fatto noi.”
Raffaella poggiò la testa sul petto di lui, e rimase così qualche istante. Non c’era più tristezza, ma la consapevolezza leggera, come una carezza, di aver trovato una sorta di pace. Ciò che avevano vissuto li aveva resi ciò che erano, e quel legame, sebbene diverso, sarebbe rimasto per sempre.
Mantenendo gli occhi chini, ma con una dolcezza nuova, Raffaella propose poco convinta: “Potremmo prenderci un caffè con Anna, prima che ripartiate… chiamami, magari.”
Alessandro fece un cenno con il capo, un lieve sorriso affiorò sulle sue labbra. Sapevano entrambi che non sarebbe accaduto. Non ce n’era bisogno, dopotutto. Le loro anime si ritrovarono ancora una volta, riflesse nelle pupille dell’altro, mentre Alessandro le lasciò la mano. Raffaella fece un passo indietro, facendo ondeggiare leggermente il vestito nero come un’ombra che si dissolve. La guardò allontanarsi, fino alla porta, poi si voltò verso la terrazza e si fece coccolare dai tetti di quella Roma buia, che rimaneva lì, immutabile e mutevole, proprio come i ricordi, come il passato che, sebbene lontano, non perdeva mai il suo splendore.
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Commenti
Di questo racconto mi piace la delicatezza, l'ottima scrittura e il finale che non è nel cliché. Ottimo lavoro
Ti ringrazio tanto, Veronica!
Bel racconto pieno di ricordi, si legge tutto in un fiato